Una rivoluzionaria, se così si può chiamare, sentenza della Corte di Cassazione Penale italiana è stata pronunciata qualche giorno fa. La sentenza numero 24084 della Prima Sezione Penale ha negli scorsi giorni rigettato il ricorso di un indiano Sikh che era stato condannato a 2mila euro di ammenda per aver portato fuori dalla propria casa – senza motivo a giustificarlo – un coltello di quasi venti cm, considerato oggetto ‘idoneo all’offesa’.
L’indiano aveva fatto ricorso sostenendo che il coltello in questione fosse un simbolo religioso, che la sua stessa religione chiedeva di portare sempre con sé anche fuori dall’abitazione.
I giudici hanno esaminato il ricorso dell’uomo ed hanno concluso che quando un immigrato sceglie di stabilirsi in un Paese diverso da quello di provenienza, deve anche accettare ed uniformarsi ai valori che informano questa società alla quale – liberamente – si è unito e dove ha scelto di vivere. Il ‘patto sociale’ alla base della convivenza civile, quindi, deve essere rispettato.
La nuova sentenza della Cassazione è probabilmente destinata a fare – oltre che giurisprudenza – anche scalpore, per motivi anche solo eminentemente politici.
La Cassazione ha stabilito che sussiste l’obbligo per l’immigrato di conformare i propri valori a quelli del mondo occidentale, in cui ha liberamente scelto di inserirsi” e di cercare di verificare se sussiste conciliabilità fra i valori religiosi e sociali della società dalla quale proviene e quelli della società dove si inserisce. Gli ermellini hanno ricordato che l’immigrato, nel caso in questione, dovrebbe evitare di violare in modo cosciente quelli che sono i diritti e doveri che fondano la base della civiltà dove ha deciso di vivere.
Si riapre, con questa sentenza, il delicato tema della possibilità di comprimere la libertà culturale e religiosa in vista di obiettivi ritenuti preminenti per l’interesse pubblico, come la tutela della sicurezza e della salute o della moralità pubblica.
Nel dictum di detta sentenza, i magistrati della Cassazione hanno anche richiamato l’articolo 9 della CEDU che stabilisce che sussiste la libertà di praticare la religione che si preferisca, ma che possono essere applicate restrizioni che siano ‘misure necessarie’ nella società democratica in virtù della tutela di interessi preminenti, come l’ordine pubblico, la morale pubblica, la tutela della salute e la protezione di diritti e libertà di tutti.
Non bisogna ovviamente credere che questa sentenza stia a significare che gli immigrati debbano abbandonare le proprie tradizioni e la cultura d’origine, anzi.
La sentenza vuole solo sottolineare l’esistenza di un limite invalicabile, che è quello del rispetto dei diritti umani, della civiltà giuridica che ospita queste persone e ovviamente anche della legge. Oltre questo confine, non si può giustificare un comportamento col fatto che esso sia concesso, o addirittura doveroso nella propria cultura o religione di riferimento.
L’attaccamento del migrante ai propri valori è ovviamente sacrosanto, ma egli deve farsi carico della responsabilità di vigilare che essi non contrastino con quelli preminenti nella società dove liberamente ha scelto di inserirsi. La sentenza quindi non ha lo scopo di ‘limitare’ la libertà di agire dei migranti o la loro espressione personale anche per mezzo della religione e della cultura.
Semplicemente vuole ricordare che esistono dei diritti e doveri, nonché dei principi giuridici e di ordine pubblico, che possono giustificare delle limitazioni alla libertà religiosa e culturale. Ovviamente di volta in volta è necessario bilanciare il diritto del singolo all’espressione personale ed al culto con il diritto ora alla tutela della salute, ora della sicurezza e dell’ordine pubblico e via dicendo; insomma, è necessario compiere quel doveroso bilanciamento di interessi che è alla base della convivenza nella società civile.